martedì 17 aprile 2007

Noblesse Oblige

Indicizzatissime NOI!!!

Noblesse Oblige: Sintetica definizione di nobiltà, «noblesse oblige» chiarisce la differenza tra il nobile (colui il quale, cioè, è gravato di obblighi) e l’ignobile (colui che s’en foute). Lo snob, il sine nobilitate, non si sente obbligato, ad esempio, nei confronti del coniuge, degli avi e degli eredi, dell’ospite, dell’oppresso, del debole, del superiore come dell’inferiore, insomma obbligato dell’obbligo supremo, l’obbligo di «sentirsi in obbligo». Quanto più si è obbligati, tanto più si è nobili. Il re, il più nobile di tutti i nobili, il rappresentante visibile (in virtù del ponte invisibile del pontefice) dell’Uno, ha più doveri di qualunque suo suddito, perché ha doveri verso [ovvero, è responsabile di] ogni suo suddito.

Circa il «noblesse oblige», si può aggiungere che nulla sembra turbare tanto l'animo moderno quanto la locuzione «bonario paternalismo», locuzione che richiama alla mente l'immagine di un padre incarnantesi, di zoom in zoom, nel capo, nel superiore, nel padrone, nel signore, nel paterfamilias insomma, via via feudale, regale, papale e, in definitiva, divino.
L'obiettivo satanico (o prometeico, il che è lo stesso) è, da sempre, l'abolizione della famiglia, il solo baluardo da opporre alla schiavitù di massa, il nucleo minimo di autosufficienza utile ad evitare il ricorso, oggi spasmodico, ai «pubblici servizi». I precedenti storici di questa campagna secolare, per limitarci ai tempi moderni, vanno dallo smantellamento dell'ordine feudale alla superfetazione dei cosiddetti «stati nazionali»,* attraverso il fil[ippe quatrième] rouge della cupidigia dei parvenu, degli arricchiti, insomma della «gente nova» dai «sùbiti guadagni».

* Superfetazione degna di una «procreazione assistita», se è vero che l'entità puramente fittizia e convenzionale dei cosiddetti «stati nazionali» (rapportabili, per un confronto, a quello che è l'Iraq attuale, nato «a tavolino» squadrando una cartina geografica) ha inglobato, e costretto a convivere, popolazioni eterogenee, se non per altro, almeno linguisticamente. Basti pensare che, per citare le esemplificazioni inglese, francese ed italiana, nessuna di queste tre lingue è stata appannaggio della maggioranza dei componenti la relativa «nazione» fino al secolo, rispettivamente, XV, XIX e XX. In dettaglio, in Inghilterra (o, meglio, in quella porzione d'Inghilterra a sud del Danelaw che era il Wessex di re Alfredo) si parlava inglese già nel IX secolo. Ma nel secolo successivo la conquista danese, che divise l'intero paese in quattro earldoms (Northumbria, Mercia, Anglia e lo stesso Wessex), ripristinò lo svedese e il norvegese a nord e il danese a sud. Nel secolo XI i normanni di Guglielmo «il conquistatore» introdussero il francese, che restò d'uso comune fino al 1400. Nel caso della Francia, il francese restò lingua minoritaria, ristretta all'isola parigina, fino ai tempi napoleonici e, a proposito dell'Italia, basterà ricordare che solo l'avvento della televisione ha permesso l'unificazione (e l'impoverimento) lessicale.
Fin qui, per la lingua. In merito, invece, alla distruzione dell'ordinamento feudale (ed al relativo accantonamento della presenza ecclesiastica), basterà rifarsi, in Francia, alla strage dei templari (tragica anticipazione del genocidio vandeano, genocidio deplorato verbalmente da Napoleone, ma esaltato in concreto con l'incisione del nome del generale Turreau, «il boia della Vandea», al sommo dell'Arc de Triomphe, dove è tuttora leggibile e sotto il quale sfila ogni presidente francese) e, in Inghilterra, dopo le successive usurpazioni dei Lancaster a danno dei Plantageneti (francofoni, come i nostri Savoia) da parte dei Lancaster e dei Tudor a danno dei medesimi Lancaster, allo scisma di Enrico VIII, Papa e Re insieme.
Circa l'Italia, per avere la certezza che la pretesa «liberazione» fu solo una conquista sabauda nel segno dell'anticlericalismo, qui basterà ricordare la denominazione assunta da Vittorio Emanuele SECONDO quale PRIMO re del nuovo Stato, il finanziamento inglese della spedizione dei Mille, la definizione di Pio IX coniata da Garibaldi («un metro cubo di letame»), lo sbarco nel protettorato britannico di Marsala, la presa di Palermo «senza quasi colpo ferire», l'affondamento del piroscafo sul quale viaggiava (con i suoi pacchi di ricevute attestanti le avvenute corruzioni) il cassiere Ippolito Nievo, la truffa dei plebisciti, gli espropri cavouriani dei conventi e, chi più ne ha, più ne metta. Questo, per limitarci alle vicende risorgimentali sagacemente dirette dalla «perfida Albione», perché le cosiddette «insorgenze», lungo l'intera penisola (dal cardinale Ruffo al marchese Albergotti, passando attraverso quel «pezzente» d'un Michele Pezza, in arte fra' Diavolo) dimostrano a sufficienza quanto scarso fosse l'entusiasmo dei liberandi nei confronti degli «infranciosati» liberatori. Infine, poiché de mortuis nil nisi bene, stendiamo un velo pietoso sui trecento, giovani e forti, che provano solo come le rivolte «popolari» e le rivoluzioni «proletarie» non nascano dal basso, ma dall'alto di un'élite, nel migliore dei casi, di ingenui malfattori e, nel peggiore, di scaltri benefattori.

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